Brano 20
La stella uncinata continuava a splendere in cielo, nella notte estiva, che profumava d’ardimento e ferocia. Un freddo vento sciamano, profugo del nord est, iniziò a scalpitare, trascinando polvere e cartacce che danzavano sulle strade in vortici e mulinelli.
La temperatura era scesa da quaranta a dodici gradi in un paio d’ore. In quella fresca serata di luglio iniziò a stillare dal cielo una tagliente pioggerella iridescente, del tutto normale in Piemonte, dato il clima subtropicale. Stormi d’aquile urbane, in cerca di cibo, stridevano, esibendosi in arditi quanto improbabili cabrate giù dai palazzi. Un rapace più ardito, volò radente per rubare il cappello dell’uomo, emettendo uno stridulo lamento. Sorpreso dall’agguato, con gli artigli ben impressi sulla retina degli occhi, Paolo corse. Salì le scale dell’antica Torre Littoria di Via Viotti. L’ascensore era in panne e lui in ritardo.
Raggiunse lo studio al diciannovesimo piano. Aveva la lingua pronta a dare una ripassata al pavimento, già tirato a lucido da inservienti efficientissimi.
Entrò, accese la luce e si accasciò sulla poltrona girevole, bagnato, esausto, impaurito, quasi che le aquile impazzite per i mutamenti climatici gli avessero comunicato un presentimento di guerra e di morte. Guardò dalla finestra che dava su Piazza Castello: terra egizia, stregata dalla malinconia d’Iside, pronta a subire il giudizio d’Osiride. Immagine di un mondo senza carattere, dove tutto poteva arrivare all’improvviso: la neve ad agosto, l’afa in novembre, ma soprattutto lunghe, interminabili piogge brizzolate, che duravano mesi. Allo stop la città iniziava ad inspirare… miasmi. Si alzava dai selciati una nebbia dolciastra che odorava di panni marci, a mollo da secoli. Questa era l’essenza della notte estiva, che permeava i viali, i palazzi, le piazze, sognanti un’impossibile rivincita barocca. Rimpianse il passato, vissuto, letto, raccontato. La morte della Torino operaia aveva spezzato il cuore di suo nonno, ed anche il suo.
Lui era un proletario che aveva scaricato sangue per farsi ingegnere, diventando poi sbirro della vigilanza ecclesiastica per caso. Un lavoro ben pagato, che gli permetteva di non fare la fame, morendo quasi di stenti.
Suonarono alla porta, Paolo andò ad aprire: "Buona sera, si accomodi."
La guardò, anzi, la valutò: elegante, sensuale, nonostante i sessanta anni e l’accento con la r rotolante. Pensò che la lunghezza della vita e la bellezza potevano ormai essere prolungate notevolmente. Alcuni vivevano sino a centoventi anni, ma solo chi poteva permetterselo, invece di un lifting superficiale, poteva scegliere un intervento radicale di blocco del gene killer.
Gli scienziati avevano scoperto che l’invecchiamento dipende da una sorta di circuito elettrico, e che il pulsante di spegnimento si trova nel cervello. Accenderlo, agendo coi farmaci sul sistema endocrino costava molto e dava risultati non definitivi, perché poteva capitare che i telomeri, i cappellini dei cromosomi, invertissero improvvisamente la procedura riprendendo a consumarsi più velocemente di prima. A quel punto neppure massicci impieghi di telomerasi modificata poteva rendere reversibile il processo, e la persona che aveva beneficiato della giovinezza per decenni, in poche settimane si trasformava in un essere decrepito e cadente, come nelle fiabe, senza più equipaggiamento genetico capace di tenerla in vita. E moriva, fra atroci dolori, ripudiata da amici e parenti, scossi dall’orrore di quello spettacolo indicibile.
"Si sieda, principessa."
La luce della lampada da tavolo, un pezzo d’antiquariato ministeriale del 1930, metteva in risalto quel volto fuori moda. Il chiaro scuro gli ricordò una foto espressionista, che ritraeva Marlene Dietrich in una posa d’aspra sensualità.
"Desidero che questo colloquio resti segreto."
"Certo, si accomodi."
"Mio figlio è sparito."
"Mi spiace. E’ fuggito di casa?"
"Lo hanno rapito questa notte. Lei lo sa. Posso spegnere la sigaretta?"
Paolo le porse un posacenere. "Prego, è l’ultimo lusso che posso concedermi. Non faccia caso al disordine, l’impresa di pulizie costa troppo."
La stella uncinata continuava a splendere in cielo, nella notte estiva, che profumava d’ardimento e ferocia. Un freddo vento sciamano, profugo del nord est, iniziò a scalpitare, trascinando polvere e cartacce che danzavano sulle strade in vortici e mulinelli.
La temperatura era scesa da quaranta a dodici gradi in un paio d’ore. In quella fresca serata di luglio iniziò a stillare dal cielo una tagliente pioggerella iridescente, del tutto normale in Piemonte, dato il clima subtropicale. Stormi d’aquile urbane, in cerca di cibo, stridevano, esibendosi in arditi quanto improbabili cabrate giù dai palazzi. Un rapace più ardito, volò radente per rubare il cappello dell’uomo, emettendo uno stridulo lamento. Sorpreso dall’agguato, con gli artigli ben impressi sulla retina degli occhi, Paolo corse. Salì le scale dell’antica Torre Littoria di Via Viotti. L’ascensore era in panne e lui in ritardo.
Raggiunse lo studio al diciannovesimo piano. Aveva la lingua pronta a dare una ripassata al pavimento, già tirato a lucido da inservienti efficientissimi.
Entrò, accese la luce e si accasciò sulla poltrona girevole, bagnato, esausto, impaurito, quasi che le aquile impazzite per i mutamenti climatici gli avessero comunicato un presentimento di guerra e di morte. Guardò dalla finestra che dava su Piazza Castello: terra egizia, stregata dalla malinconia d’Iside, pronta a subire il giudizio d’Osiride. Immagine di un mondo senza carattere, dove tutto poteva arrivare all’improvviso: la neve ad agosto, l’afa in novembre, ma soprattutto lunghe, interminabili piogge brizzolate, che duravano mesi. Allo stop la città iniziava ad inspirare… miasmi. Si alzava dai selciati una nebbia dolciastra che odorava di panni marci, a mollo da secoli. Questa era l’essenza della notte estiva, che permeava i viali, i palazzi, le piazze, sognanti un’impossibile rivincita barocca. Rimpianse il passato, vissuto, letto, raccontato. La morte della Torino operaia aveva spezzato il cuore di suo nonno, ed anche il suo.
Lui era un proletario che aveva scaricato sangue per farsi ingegnere, diventando poi sbirro della vigilanza ecclesiastica per caso. Un lavoro ben pagato, che gli permetteva di non fare la fame, morendo quasi di stenti.
Suonarono alla porta, Paolo andò ad aprire: "Buona sera, si accomodi."
La guardò, anzi, la valutò: elegante, sensuale, nonostante i sessanta anni e l’accento con la r rotolante. Pensò che la lunghezza della vita e la bellezza potevano ormai essere prolungate notevolmente. Alcuni vivevano sino a centoventi anni, ma solo chi poteva permetterselo, invece di un lifting superficiale, poteva scegliere un intervento radicale di blocco del gene killer.
Gli scienziati avevano scoperto che l’invecchiamento dipende da una sorta di circuito elettrico, e che il pulsante di spegnimento si trova nel cervello. Accenderlo, agendo coi farmaci sul sistema endocrino costava molto e dava risultati non definitivi, perché poteva capitare che i telomeri, i cappellini dei cromosomi, invertissero improvvisamente la procedura riprendendo a consumarsi più velocemente di prima. A quel punto neppure massicci impieghi di telomerasi modificata poteva rendere reversibile il processo, e la persona che aveva beneficiato della giovinezza per decenni, in poche settimane si trasformava in un essere decrepito e cadente, come nelle fiabe, senza più equipaggiamento genetico capace di tenerla in vita. E moriva, fra atroci dolori, ripudiata da amici e parenti, scossi dall’orrore di quello spettacolo indicibile.
"Si sieda, principessa."
La luce della lampada da tavolo, un pezzo d’antiquariato ministeriale del 1930, metteva in risalto quel volto fuori moda. Il chiaro scuro gli ricordò una foto espressionista, che ritraeva Marlene Dietrich in una posa d’aspra sensualità.
"Desidero che questo colloquio resti segreto."
"Certo, si accomodi."
"Mio figlio è sparito."
"Mi spiace. E’ fuggito di casa?"
"Lo hanno rapito questa notte. Lei lo sa. Posso spegnere la sigaretta?"
Paolo le porse un posacenere. "Prego, è l’ultimo lusso che posso concedermi. Non faccia caso al disordine, l’impresa di pulizie costa troppo."