Brano 16
“Aaaah!” gridò Ted Villata, quasi gli avessero strappato le palpebre, ritrovandosi a guidare una macchina che zigzagava sulla pioggia come un ippopotamo in un valzer.
Si fermò a pochi centimetri dal guard rail, in un’area di sosta. Che culo! Si era addormentato al volante, tutta colpa del caffé e della crosta di fontina, che in quattro conati finirono sull’asfalto brumoso della Bologna-Rimini. In quel pomeriggio gelatinoso di luglio, Villata si sentì libero. Poggiò la testa tra le braccia sul tettuccio dell’auto. Era stordito, non ricordava cosa gli fosse successo. Aveva smesso di vomitare, ma gli restava in bocca una pestilenza d’etere, mista a uova marce e cognac.
Villata scivolò a terra come un sacco semivuoto, questa volta inesorabilmente attratto dalla forza di gravità e sedette sull’asfalto, mentre le macchine sfrecciavano verso l’infinito delle possibilità.
Si inabissava così, il Villata, con gli occhi chiusi, e gli pareva d’esser molle come un cartone animato. Credette, per un istante, d’avere un appuntamento con il Cappellaio Matto, ricordò il volto di una ragazzina che lo amava… ma sapeva che riaprendo le palpebre tutto sarebbe tornato fenomenico, come sempre. Il suo corpo astrale frusciava, mosso dal vento dei tir, che schizzavano via. Un flash d’energia acida lo scosse: “Devo arrivare a Rimini! Ma chi l’ha detto? Cos’è ‘sta camorra di voci che c’ho nella testa? Litigano, s’incazzano, si bastonano, poi fanno pace e si amano più di prima, e io obbedisco, mi muovo… ma dove vado e perché?”
Ted risalì, mise in moto, innestò la prima e ripartì: non aveva più sonno e un’inaspettata forza d’animo lo stava portando al mare.
Niente da fare, oggi è troppo scassato il Villata: anni quaranta, un corpo possente e muscoloso ma un aspetto sfatto e consumato. Si ferma in una stazione di servizio, posteggia. Entra. L’atmosfera di un autogrill è la stessa ovunque: un luogo perfetto per le anime di polimeri che vogliono scomparire nel nulla, un nulla dove l’unica cosa passabile è il caffé. Il resto costa cifre addoloranti e Ted si avvicina al bancone per ordinare. Accettano contanti. Fissa con occhi spenti lo specchio di fronte a sé, che riflette l’ingresso dell’autogrill.
Signorile, una berlina azzurra prende posto nel parcheggio, ne discende una bionda con i capelli cortissimi: alta, elegante, sensuale. Abbandona con reticenza l’aria condizionata per tuffarsi nell’afoso abbraccio caldo umido del mattino. E’ un attimo, una ventina di passi rapidi e i vetri della porta a cellule fotoelettriche si richiudono alle sue spalle, mentre il Villata installa tre zollette di zucchero sul fondo della nera bevanda calda: “La realtà non dovrebbe esistere, anzi, non esiste, perché io non ci sono, c’è solo questa camorra di voci nella testa!” Il Villata, pur nel suo ottundimento, l’ha vista, ha registrato. Lei si avvicina al banco, lo affianca, ordina un latte. Ted, con la coda dell’occhio ‘respira’ la fantastica precisione del suo profumo. A livello subliminale sta avvenendo una trasmutazione alchemica. Il problema del Villata si fonde con cipria, fiori e pepe, in una sorta di teorema: l’enunciato del risveglio del senso.
“Vorrei del miele” dice la donna, con una voce cortese ma risoluta. Segni: nessun accento, vicina ai quaranta, sempre di corsa, sempre perfetta, non c’è attività più dura della sua. Il barista la guarda e capisce: in lei si distinguono la ragazza diafana, leggera, sensuale, e la donna che manderesti subito a cagare. E' fortunata, ricca, viziata, capricciosa, insolente, piena di se, troppo triste, troppo sola, troppo affamata d’amore. Troppo troppa. Trattasi di modello standard da sesso che ha visto cose che farebbero impallidire voi uomini al largo della costellazione del Cavallo dei Calzoni. A lei basta amministrare pochi centimetri di disponibilità in più, ogni giorno, per puntare direttamente al trono di un principato. Eccola: il volto disegnato da un illustratore, il corpo pensato da un architetto. Un angelo, verrebbe da dire. Una demone così, difficilmente favorisce un clima d’improvvisata confidenza: lei è sempre configurata, educata, garbatamente irritante; anche se ti parla, la sua voce, lo sguardo, sono a centomila anni luce da te, prossimi ad una super nova. Il ragazzo del bar, ha capito e resta al suo posto. Niente battute, niente sorrisi di troppo, le porge il miele.
Ted Villata beve, gomito poggiato sul bancone. E’ stremato, ma il suo olfatto ancora idoneo, lo porta, lo trascina, lo fa voltare. Per lui non esistono barriere psichiche, gestuali, odorifere che difendono lo spazio vitale della donna. Invade d’istinto il territorio: “Ma lei è la giornalista… Isabella Neumann!” Sentendo quel nome urlato da uno sconosciuto, la mente della femmina spara un flash di benessere e di felicità. E’ una delle tante cui la sindrome da riflettore ha causato un’ipertrofia dell’ego.
“Ha indovinato”, disse Isabella. “Come ha fatto a riconoscermi, con questi occhiali neri, il foulard in testa e i capelli corti tinti? Non ci sarebbe riuscito neppure mio marito Paolo.”
"Lei è la migliore!" tagliò corto Ted.
“Lo sa che ha rischiato un insulto rivolgendomi la parola?”
“Davvero? Ma cosa ho fatto? Voglio solo l’autografo.” “Dio mio, non concedo autografi al primo venuto! Non si capisce che detesto farmi avvicinare? E’ il mio biglietto da visita. D’altra parte, anche se non amo le sorprese, qualche volta mi lascio andare. Sono fatta così: chi mi conosce, sa come prendermi; mi stupisce che lei sia riuscito ad avvicinarmi senza mandarmi in bestia, è strano, molto strano. Le faccio l’autografo perché lei è uno sprovveduto. Ragazzo, mi dia una penna”, concluse la donna, rivolgendosi al barista.
L’aveva conquistata, d’altra parte voleva fare l’attore; era certo d’aver la faccia giusta e il fisico perfetto per il cinema francese. S’immaginava come l’erede di antichi divi come Gabin e Belmondo: faccia dura, tenero gaglioffo.
“La ringrazio per l’autografo, mi scusi, è una bella cosa averla incontrata. Buon viaggio, signora Neumann.”
“Addio giovanotto.”
La saluta con un cenno, vergognandosi del sudore che rende la sua mano schifosamente scivolosa. Il ragazzo lascia la donna al bancone e si allontana, dirigendosi verso la toilette.
“Aaaah!” gridò Ted Villata, quasi gli avessero strappato le palpebre, ritrovandosi a guidare una macchina che zigzagava sulla pioggia come un ippopotamo in un valzer.
Si fermò a pochi centimetri dal guard rail, in un’area di sosta. Che culo! Si era addormentato al volante, tutta colpa del caffé e della crosta di fontina, che in quattro conati finirono sull’asfalto brumoso della Bologna-Rimini. In quel pomeriggio gelatinoso di luglio, Villata si sentì libero. Poggiò la testa tra le braccia sul tettuccio dell’auto. Era stordito, non ricordava cosa gli fosse successo. Aveva smesso di vomitare, ma gli restava in bocca una pestilenza d’etere, mista a uova marce e cognac.
Villata scivolò a terra come un sacco semivuoto, questa volta inesorabilmente attratto dalla forza di gravità e sedette sull’asfalto, mentre le macchine sfrecciavano verso l’infinito delle possibilità.
Si inabissava così, il Villata, con gli occhi chiusi, e gli pareva d’esser molle come un cartone animato. Credette, per un istante, d’avere un appuntamento con il Cappellaio Matto, ricordò il volto di una ragazzina che lo amava… ma sapeva che riaprendo le palpebre tutto sarebbe tornato fenomenico, come sempre. Il suo corpo astrale frusciava, mosso dal vento dei tir, che schizzavano via. Un flash d’energia acida lo scosse: “Devo arrivare a Rimini! Ma chi l’ha detto? Cos’è ‘sta camorra di voci che c’ho nella testa? Litigano, s’incazzano, si bastonano, poi fanno pace e si amano più di prima, e io obbedisco, mi muovo… ma dove vado e perché?”
Ted risalì, mise in moto, innestò la prima e ripartì: non aveva più sonno e un’inaspettata forza d’animo lo stava portando al mare.
Niente da fare, oggi è troppo scassato il Villata: anni quaranta, un corpo possente e muscoloso ma un aspetto sfatto e consumato. Si ferma in una stazione di servizio, posteggia. Entra. L’atmosfera di un autogrill è la stessa ovunque: un luogo perfetto per le anime di polimeri che vogliono scomparire nel nulla, un nulla dove l’unica cosa passabile è il caffé. Il resto costa cifre addoloranti e Ted si avvicina al bancone per ordinare. Accettano contanti. Fissa con occhi spenti lo specchio di fronte a sé, che riflette l’ingresso dell’autogrill.
Signorile, una berlina azzurra prende posto nel parcheggio, ne discende una bionda con i capelli cortissimi: alta, elegante, sensuale. Abbandona con reticenza l’aria condizionata per tuffarsi nell’afoso abbraccio caldo umido del mattino. E’ un attimo, una ventina di passi rapidi e i vetri della porta a cellule fotoelettriche si richiudono alle sue spalle, mentre il Villata installa tre zollette di zucchero sul fondo della nera bevanda calda: “La realtà non dovrebbe esistere, anzi, non esiste, perché io non ci sono, c’è solo questa camorra di voci nella testa!” Il Villata, pur nel suo ottundimento, l’ha vista, ha registrato. Lei si avvicina al banco, lo affianca, ordina un latte. Ted, con la coda dell’occhio ‘respira’ la fantastica precisione del suo profumo. A livello subliminale sta avvenendo una trasmutazione alchemica. Il problema del Villata si fonde con cipria, fiori e pepe, in una sorta di teorema: l’enunciato del risveglio del senso.
“Vorrei del miele” dice la donna, con una voce cortese ma risoluta. Segni: nessun accento, vicina ai quaranta, sempre di corsa, sempre perfetta, non c’è attività più dura della sua. Il barista la guarda e capisce: in lei si distinguono la ragazza diafana, leggera, sensuale, e la donna che manderesti subito a cagare. E' fortunata, ricca, viziata, capricciosa, insolente, piena di se, troppo triste, troppo sola, troppo affamata d’amore. Troppo troppa. Trattasi di modello standard da sesso che ha visto cose che farebbero impallidire voi uomini al largo della costellazione del Cavallo dei Calzoni. A lei basta amministrare pochi centimetri di disponibilità in più, ogni giorno, per puntare direttamente al trono di un principato. Eccola: il volto disegnato da un illustratore, il corpo pensato da un architetto. Un angelo, verrebbe da dire. Una demone così, difficilmente favorisce un clima d’improvvisata confidenza: lei è sempre configurata, educata, garbatamente irritante; anche se ti parla, la sua voce, lo sguardo, sono a centomila anni luce da te, prossimi ad una super nova. Il ragazzo del bar, ha capito e resta al suo posto. Niente battute, niente sorrisi di troppo, le porge il miele.
Ted Villata beve, gomito poggiato sul bancone. E’ stremato, ma il suo olfatto ancora idoneo, lo porta, lo trascina, lo fa voltare. Per lui non esistono barriere psichiche, gestuali, odorifere che difendono lo spazio vitale della donna. Invade d’istinto il territorio: “Ma lei è la giornalista… Isabella Neumann!” Sentendo quel nome urlato da uno sconosciuto, la mente della femmina spara un flash di benessere e di felicità. E’ una delle tante cui la sindrome da riflettore ha causato un’ipertrofia dell’ego.
“Ha indovinato”, disse Isabella. “Come ha fatto a riconoscermi, con questi occhiali neri, il foulard in testa e i capelli corti tinti? Non ci sarebbe riuscito neppure mio marito Paolo.”
"Lei è la migliore!" tagliò corto Ted.
“Lo sa che ha rischiato un insulto rivolgendomi la parola?”
“Davvero? Ma cosa ho fatto? Voglio solo l’autografo.” “Dio mio, non concedo autografi al primo venuto! Non si capisce che detesto farmi avvicinare? E’ il mio biglietto da visita. D’altra parte, anche se non amo le sorprese, qualche volta mi lascio andare. Sono fatta così: chi mi conosce, sa come prendermi; mi stupisce che lei sia riuscito ad avvicinarmi senza mandarmi in bestia, è strano, molto strano. Le faccio l’autografo perché lei è uno sprovveduto. Ragazzo, mi dia una penna”, concluse la donna, rivolgendosi al barista.
L’aveva conquistata, d’altra parte voleva fare l’attore; era certo d’aver la faccia giusta e il fisico perfetto per il cinema francese. S’immaginava come l’erede di antichi divi come Gabin e Belmondo: faccia dura, tenero gaglioffo.
“La ringrazio per l’autografo, mi scusi, è una bella cosa averla incontrata. Buon viaggio, signora Neumann.”
“Addio giovanotto.”
La saluta con un cenno, vergognandosi del sudore che rende la sua mano schifosamente scivolosa. Il ragazzo lascia la donna al bancone e si allontana, dirigendosi verso la toilette.